mercoledì 15 aprile 2015

[racconto] Il volo della farfalla (2nd ed.)

[Seconda versione di questo racconto]

Olga fissò con occhi sbarrati la porta blindata chiusa davanti a lei. Istintivamente si frugò le tasche vuote della vestaglia alla ricerca delle chiavi di casa, quelle stesse chiavi che la Signorina le aveva lasciato in custodia prima di partire per il fine settimana, e che ora giacevano dimenticate sul mobiletto all'ingresso.
Bestemmiando silenziosamente si chiese a quale degli inquilini potesse chiedere aiuto. Lavorava da anni in quel palazzo e tutti la conoscevano. Aveva lavorato per tante signore, prima facendogli le pulizie in casa, poi assistendole quando diventavano anziane. Nessuno si era mai lamentato, ma chi ti apre la porta all'alba di domenica? Maledetta lei e la sua testaccia quando aveva deciso di andare a buttare la spazzatura mezza addormentata.

Avrebbe potuto bussare da Giorgia, la figlia di una vecchia del secondo piano per cui aveva lavorato due anni prima, senza neanche chiederle i contributi. Ma no, aveva i bambini piccoli e si sarebbe arrabbiata; nel palazzo era una che contava e non conveniva farsela nemica.
Oppure sarebbe potuta andare dalla Signora Maria, al quinto piano. La vedova dell'Avvocato, era sempre gentile con lei e le offriva caffè e pasticcini solo per chiacchierare un po'. Prima avrebbe borbottato, ma poi le avrebbe chiamato i pompieri. Sì brava, proprio i pompieri le ci volevano, così tutto il palazzo avrebbe saputo quello che era successo. Le solite vipere avrebbero chiamato subito la Signorina dai suoi parenti al Nord e chissà cosa si sarebbero inventate stavolta.

Magari sarebbe saltata fuori ancora la storia di Mario, anche se non lo vedeva da mesi, da prima che tornasse in Ucraina per farsi curare. Che poi curare non l'avevano curata per niente: "Non si preoccupi signora," - l'aveva confortata un dottorino fresco di laurea e in attesa di emigrare in Inghilterra - "il suo tumore ormai si è fermato. Potrebbe diffondersi ancora, ma alla sua età è raro, mi creda. Se dovesse sentire ancora dei dolori al ventre prenda queste pastiglie finché non le passano, no non le deve pagare, non si preoccupi. Cerchi di restare tranquilla e si ricordi di tornare tra sei mesi per il prossimo controllo.". Lei si era rimessa la camicetta, nascondendo pudicamente la farfalla tatuata che le ornava il petto, lo aveva ringraziato, aveva accettato le pillole ed era salita subito sul pullman per tornare in Italia. Aveva ancora delle buone conoscenze e qualcuno l'avrebbe aiutata a ricoverarsi al Policlinico per curarsi. Al Policlinico non ci era ancora entrata, ma almeno un lavoretto tranquillo l'aveva ritrovato e poteva tirare il fiato.

E adesso questo. No, nessuno doveva saperlo. Avrebbe risolto tutto a modo suo. Sarebbe andata da un vecchio fabbro che abitava nel quartiere e aveva lavorato tante volte in casa delle sue padrone. In due minuti le avrebbe aperto la porta, per una buona mancia sarebbe stato zitto e l'incidente non sarebbe mai esistito.

Olga si girò e si avviò verso l'uscita, sollevata di aver trovato una soluzione, ma fatti pochi passi sul pianerottolo si bloccò di colpo. Cos'era quel filo di fumo che usciva dalla sua cucina, ben visibile dal finestrone del pianerottolo? Che scema! Prima di uscire aveva messo sul fuoco le pentole con lo stufato per Irina. Quel giorno aveva invitato a pranzo la sua migliore amica senza neanche chiedere il permesso alla padrona, ma aveva messo poca acqua nella padella e se non l'avesse aggiustata in fretta la carne avrebbe iniziato a bruciare.

Attraverso il finestrone continuò a fissare il fumo che usciva dalla cucina, come se avesse potuto fermarlo con la sola forza di volontà. Tra poco le pentole sarebbero bruciate, lo sapeva, e cosa sarebbe successo se il fuoco si fosse attaccato anche ai mobiletti? La Signorina era fissata per l'ordine e la pulizia della casa. Cosa avrebbe detto se i pompieri l'avessero chiamata per dirle che la sua cucina stava bruciando per colpa di una domestica stupida e sbadata? Di sicuro l'avrebbe cacciata su due piedi. Già quella volta che aveva rotto il vaso all'ingresso si era infuriata come una tigre e gli aveva tolto cinquanta euro dalla busta paga, ma stavolta l'avrebbe cacciata senza pensarci e avrebbe parlato talmente male di lei nel quartiere che nessuno le avrebbe offerto più un lavoro, figurarsi un letto.

Uno spiffero di aria fredda proveniente dal finestrone la riportò alla realtà. Il fumo sembrava più spesso ora, ma cosa avrebbe potuto fare, si chiese mordendosi nervosamente le labbra. E pensare che da lì le sarebbe bastato un salto, un solo salto, per aggrapparsi al balcone ed entrare in cucina. La ringhiera del terrazzino non distava più di due metri dal punto in cui lei si trovava. Anche se non ci fosse arrivata, lì di fianco sporgeva il travetto di ferro a cui erano fissati i fili del bucato, al massimo ad un metro e mezzo, e quello non lo avrebbe potuto mancare di certo. Aveva già studiato quel salto in passato, e aveva anche avvertito la Signorina di chiudere sempre la porta della veranda perché chiunque poteva saltarle in casa, ma lei non gli aveva creduto - "Solo a te possono venire certe idee, Olga. Soltanto uno scoiattolo riuscirebbe a saltare da lì sotto."
"Si sbaglia" - gli aveva risposto lei - "quando ero una ragazzina, in Romania, saltavo dal tetto della stalla di mio zio alla terrazza ed era anche più lontano di così."
"Sì, ma se cascavi dove finivi?"
"Sul fieno per le mucche."
"Appunto, lo vedi qui sotto quant'è alto? E quello non è fieno, ma cemento. No, solo un matto ci proverebbe!".

Già, l'altezza, non aveva mica torto la Signorina. L'appartamento era al primo piano, ma il balcone si affacciava su un cortiletto ribassato e da terra c'erano almeno sette metri. Doveva fare qualcosa subito, la paura le faceva scoppiare la testa e le stringeva il cuore in una morsa. Se saltava rischiava la pelle, ma se restava ancora lì a guardare senza fare nulla la cucina sarebbe andata in malora e con essa anche le sue speranze di restare in Italia.
Con uno scoppio soffocato il fumo aumentò e lei cominciò a vedere il fuoco che lo alimentava, di sicuro la carne aveva cominciato a bruciare, non c'era più tempo da perdere. Senza neanche rendersene conto spalancò il finestrone e salì in piedi sul cornicione di granito. Il freddo del mattino penetrò attraverso le ciabatte e per un attimo abbassò lo sguardo sul cemento del cortile. Non doveva guardare di sotto. Lei si sentiva ancora forte, era capace di alzare una invalida di ottanta chili dal letto e metterla sulla carrozzina da sola, e la ringhiera era lì, la poteva quasi toccare.

Un nuovo sbuffo di fumo le tolse ogni dubbio. Si fece il segno della croce, poi si schiacciò come una molla sul bordo del finestrone e infine si lanciò con tutta la sua forza, tendendo le braccia verso il balcone. E come volava! Si sentiva di nuovo la ragazzina che saltava tra i tetti senza paura, leggera come una farfalla; e poi non era vero che sotto c'era il fieno delle mucche, quello era fango dei maiali, ma tanto lei non era mai caduta, e non sarebbe caduta nemmeno stavolta.
Vide la ringhiera avvicinarsi, ci era riuscita! No, non era la ringhiera, almeno il travetto del bucato. No, erano solo i fili.
Olga si aggrappò ai fili carichi di panni. Per non spezzarli col proprio peso li afferrò tutti insieme, restando aggrappata con il braccio destro mentre col sinistro si allungava verso il balcone, scostando disperatamente le lenzuola umide.
Il primo filo si ruppe con uno schianto, portando con sé verso il basso un lenzuolo, un paio di ciabatte e tutto il suo coraggio. Il suo urlo, la sua disperata richiesta di aiuto, squarciò l'assonnata atmosfera della domenicale del condominio come un'esplosione.

Giorgia fu la prima ad affacciarsi alla finestra che dava sul cortile, svegliata da quel grido di terrore e dal tonfo sordo che ne era seguito. Ci mise qualche istante a riconoscere la figura contorta di Olga in mezzo al cortile, nascosta com'era dai panni caduti.

Mentre Giorgia correva a svegliare il dottore del quarto piano, Olga riaprì un attimo gli occhi. Aveva dolori dappertutto e non riusciva a muoversi, ma ora non aveva più paura, aveva fatto del suo meglio per salvare la cucina della Signorina e nessuno l'avrebbe potuta mandare via da lì, mai più.

Mentre i tovaglioli di carta infuocati, spinti dal vento sul fornello, si spegnevano lasciando qualche bruciatura sul piano della cucina, il dottore la raggiunse: la gravità delle sue ferite era evidente, difficilmente avrebbe potuto camminare di nuovo e pote' solo restarle accanto in attesa dell'ambulanza.

Al suo risveglio, dopo qualche giorno di coma, Olga si ritrovò nel letto del Policlinico in cui aveva tanto sperato di stare, ma per motivi assai più gravi. Le fratture al bacino riportate nella caduta la costrinsero a varie operazioni e a mesi di riabilitazione che, ironicamente, trascorse proprio a casa della Signorina, impietosita dal suo stato. Non raccontò mai a nessuno i motivi del suo gesto, disse che il trauma le aveva fatto perdere la memoria, e dopo qualche mese, quando ormai riusciva a muoversi agevolmente con una sola stampella, anche le signore più curiose del palazzo smisero di farle domande, arrendendosi alla sua cocciutaggine. Solo la Signorina si accorse, nel tempo, della strana rabbia che si impossessava di Olga ogni volta che puliva le superfici della cucina deturpate da quelle misteriose bruciature, ma nella sua improvvisa benevolenza, non gliene parlò mai.

lunedì 13 aprile 2015

L'isola di Gaia (di Rita Carla Francesca Monticelli)

In questo volume l'autrice ci fa fare balzo in avanti di decenni nella vicenda iniziata da Deserto Rosso.

Lo stile dell'opera è completamente diverso dalla precedente, da una hard SF di esplorazione spaziale siamo trasportati in un mondo alla Philip Dick, in cui ogni personaggio ha una percezione indotta della realtà che lo circonda e della propria identità.

Entrare nella atmosfera dell'opera richiede un po' di pazienza al lettore, ampiamente ripagata da un plot intrigante.

Il ciclo di Aurora diventa sempre più interessante, non perdetelo.

[racconto] La salita

Finalmente in sella. Faccio un paio di pedalate sul piazzale polveroso del noleggiatore per provare l'equilibrio della bicicletta: il telaio scricchiola, il cambio è lento e risponde a scatti, ma il manubrio è ben fissato; non è una Ferrari, ma per arrivare in cima alla salita può bastare.

Dopo che la mia ultima due ruote, già tutta ammaccata, mi è stata rubata in una viuzza di Milano, ho rinunciato a possederne una. Del resto, se vivi a due passi dalla Tiburtina, andare in bici fuori dalle riserve indiane dei parchi e dei giardini condominiali è un tentato suicidio; ormai mi sono adattato ai traballanti mezzi pubblici della Capitale, e all'agonia del traffico automobilistico, ma da ragazzo era molto diverso.​
Sono cresciuto in un paesino collinare con vista sulle Alpi: qualche officina, prati, boschi e campi coltivati ovunque, un luogo da favola, immerso in una noia mortale.​ L'unica via di fuga dai pomeriggi senza fine era inforcare la bici e pedalare a zonzo intorno al paese oppure esplorare gli sterrati sassosi che tagliavano i campi di grano. Non mi importava che ci fosse il Sole a picco o i nuvoloni di un temporale in arrivo, l'importante era uscire di casa e annusare un nuovo pezzetto di mondo. Breve o lungo che fosse il mio viaggio, il momento più atteso e temuto era sempre lo stesso: la salita. E le salite non mancavano mai, casa nostra era in un avvallamento incastrato tra i campi coltivati e i boschi e qualunque fosse la strada che avessi scelto non potevo evitare di affrontare almeno una scalata ad ogni uscita. Anche negli anni successivi, quando le mie esplorazioni si estesero ai paesi vicini, sino a portarmi in città, a molti chilometri di distanza, le lunghe salite erano il momento topico di ogni viaggio. 
Quei lunghi minuti in cui sei da solo, faccia a faccia con la fatica che sembra non finire mai, su quella strada sempre più ripida che devi superare con la tua bici senza cambi, perché chi ha mai avuto i soldi per una scintillante due ruote a ventuno rapporti.​​ A volte ce la fai, conquisti la cima con il fiato corto e un gran sorriso che ti fiorisce sul volto tirato. Altre volte, tante, ti arrendi. I muscoli delle gambe bruciano dalla fatica, avanzi di pochi centimetri alla volta in piedi sui pedali fino a quando la bici si intraversa, allora devi mettere il maledetto piede per terra. A quel punto non ti resta che scendere e spingere il tuo mezzo a piedi finché la salita non digrada, vergognandoti un po' per la sconfitta e gli occasionali scherzi degli altri ciclisti, ma intimamente sollevato di non dover più faticare così tanto. Lo devo a loro, a tutte le salite che ho provato a scalare, se sono riuscito a diventare l'ariete testardo che ancora sono.

Oggi voglio rinfrescarmi la memoria. Tra le stradine che circondano la Villa, c'è una salita, breve ma ripida, che finisce con un ultimo tratto sassoso e traditore. Me la voglio proprio godere, ma questa volta non sarò da solo, ci sarà anche mio figlio con me.

Andrea prova oggi per la prima volta una bicicletta con i cambi, è un po' preoccupato e si sente arrugginito, è la prima volta che monta in sella quest'anno. Partiamo lentamente perché possa prendere confidenza con i nuovi comandi, poi cominciamo a pedalare verso la zona più boscosa della Villa. Quanta differenza dalle mie passeggiate solitarie per le colline.
Questa è la prima domenica calda di Primavera e il parco è affollatissimo. Ci sono famiglie con bambini ovunque, alcuni piccolissimi imparano a camminare inseguendo un pallone per i sentieri, altri pedalano su bici così piccole che mi arrivano a malapena al ginocchio. C'è anche un numero incredibile di cani, di tutte le forme e dimensioni, a passeggio con i loro padroni e alcuni sembrano apprezzare molto le due ruote. A forza di evitare bambini e sfuggire ai cani ci sembra di essere più i protagonisti di un videogioco che in una passeggiata nel verde. Passato il primo livello senza danni per nessuno, arriviamo nella zona più isolata della Villa, in cui molti sentieri di varia grandezza si diramano senza indicazioni. Guido mio figlio con sicurezza per un largo viottolo che ci conduce rapidamente... ai piedi di una scalinata che taglia su per i boschi. Andrea mi guarda con un'espressione stupefatta - Ma dove mi hai portato papà? - imbarazzato, cerco di mantenere un tono disinvolto - Mi sono confuso, la prossima svolta è quella giusta - e lo spero ardentemente. Per fortuna al secondo tentativo prendiamo la svolta giusta e ci troviamo sulla strada in salita che ricordavo. Ora eccoci al terzo livello. Vedo che Andrea se la cava bene, ha un buon equilibrio, ma a metà rampa deve smontare di sella e spingere, per lui è un po' troppo ripida. Quando vedo che lui è tranquillo e non ci sono pericoli intorno non resisto - Dai che ti aspetto in cima - gli urlo, e mi alzo sui pedali per superare il tratto ripido della rampa, è breve, ma arrivo in cima col fiatone. Andrea arriva spingendo la bici dopo un paio di minuti, placando il mio istinto protettivo già in ansia, e mi trova con un gran sorriso - Forza Andrea, che la salita è finita. Risali che mamma ci aspetta più avanti.